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1800 denari

1800 denari

1800 denari sono la quantità stabilità dal governo Meloni per censurare un monologo di Antonio Scurati. dietro quella quantità ci sono, almeno, tre questioni: la menzogna, il proposito; il risultato.

La menzogna

Sarebbe meglio dire le menzogne, perché son state diverse le versioni del fatto che abbiamo sentito. Non è raro. La censura in democrazia non è giustificabile. Non lo è perché suppone annichilire il confronto dialettico tra le parti sociali, eliminare di fatto il substrato prima e la validità del meccanismo su cui poggia la democrazia. Per censurare serve una giustificazione che sia accettabile agli occhi di una stragrande maggioranza e difficilmente si trova quella giusta al primo tentativo. Ecco perché le diverse versioni. Poi ci sarà tempo per aggiustare le cose, per modificare la percezione di un fatto grave.

Sono 1800 denari la quantità che pesa la censura. Certo, ci sono stati casi di censura precedenti e sono convinto che ce ne saranno altri. tuttavia mai prima d’ora si era dato un peso alla censura, una quantità. La censura ha, quindi, una dimensione economica. Una versione persino meschina perché in Rai 1800 denari sono appena secondi di pubblicità.  E poi, 1800 denari sono troppi per un monologo? Non direi, per due motivi: si tratta di un atto originale, unico e frutto di riflessone e lavoro (quel lavoro che si è messo una vita ad imparare a fare bene, come qualsiasi falegname, ma co strumenti diversi); si tratta di un monologo che avrà una diffusione prevista amplissima e per cui la remunerazione è consona con l’importanza dell’incarico. Vogliamo poi paragonare queste cifre con quelle pagate ai signori del gossip come Corona?

Il proposito

1800 denari sono la quantità che agli occhi del governo giustificano un altro attacco agli intellettuali di questo paese e alle loro opinioni. Questa è la cifra, anzi è solo una cifra, che permette al governo Meloni dire “vedete come sono ben pagati gli intellettuali”. Questo, però, è solo un’altra tappa della campagna in corso, continua e martellante contro ogni intellettuale (paradossalmente anche contro quelli che potrebbero condividere in tutto o in parte degli ideali del governo). Con intellettuale non deve intendersi un essere alieno alla realtà quotidiana, bensì il contrario, una persona che riflette sulle condizioni in cui viviamo tutti noi, a scapito di quale sia poi il proprio mestiere.

Smobilitare e snobilitare gli intellettuali è una necessità di chi desidera governare senza contraddittori, che vuol dire che si colloca ortogonalmente alla realtà: evitare il confronto, la dialettica è possibile solo se si rinnega la realtà, se si girano le spalle e si costruisce un’immagine idealizzata. La mancanza di intellettuali per controbattere, per discutere, per diventare megafono di posizioni diverse è fondamentale per raggiungere lo scopo di smantellare il sistema democratico nei suoi meccanismi e processi, lasciando soltanto un guscio vuoto che aderisca esclusivamente ai formalismi del voto.

La strategia

È una strategia adoperata per ogni governo con ambizioni totalitarie, così in passato e di ogni governo con desideri totalizzanti, così nel presente. La storia insegna che quando questi governi si disintegrano, anche gli intellettuali favorevoli sono di troppo, perché sono l’ultima àncora possibile con la realtà seppur distorta. Abbiamo bisogno di intellettuali, di molti intellettuali, non perché sono un élite, ma perché sono una avanguardia, una vedetta dei tempi in arrivo. Anzi, abbiamo bisogno che ciascuno di noi ambisca ad essere un intellettuale, ovvero a essere un individuo attivo, pensante, partecipe della vita comune tanto quanto di quella privata.

E voi direte che sto esagerando. Bene, faccio un esempio. Ora discute a bassa voce se l’Europa, e quindi anche l’Italia, deve imboccare la strada dell’economia di guerra, quel tipo di economia in cui si espandono servizi e impiego in ambito militare, e si depopolano segmenti della società liberando risorse e attuando un riordino sociale e economico. In questo quadro annullare, zittire, smobilitare e disintegrare la voce degli intellettuali priva tutti noi di un confronto democratico, di far valere ragioni diverse a quelle che conducono alla violenza. Quel che succede quando la collettività perde la capacità di riflettere il peggio può accadere.

E questo è solo un aspetto. Usare i soldi per fare ciò è possibile in due modi: gli intellettuali guadagnano immeritatamente tanti soldi, ecco il caso Scurati;  si zittiscono gli intellettuali attaccando il loro patrimonio, ecco il caso Canfora, attraverso cause che potrebbero non sostenere (allo stesso modo che le multinazionali trascinano in giudizio intere comunità le cui risorse non possono fronteggiare i costi della giustizia).

Il risultato

1800 denari sono la censura sul pensiero e sulla libertà di parola, insomma sulla democrazia. Scurati, si dirà, non è stato censurato perché il suoi monologo è stato diffuso ovunque. Bene, non confondiamo le manovre per sfuggire, legittimamente, alla censura con l’inesistenza della censura. Oltre a questo bisogna tenere presente che un risultato interno al censore c’è: la spaccatura tra coloro che preferiscono dissimulare (o mentire) e quelli che fieramente vantano il ruolo di censori. Non è cosa da poco.

Questa divisione suppone una linea comune nel fondo, divergente nella forma, forma che misura l’indice di aggressività contro il dissenso, di avvicinamento all’autoritarismo, di insofferenza per le pratiche democratiche. Ci si avvia verso una democratura, come sosteneva, non solo lei ovviamente, Michela Murgia?  Questa dipenderà dalla resistenza alla censura, dall’insofferenza dell’altro, dall’astio. Questa resistenza non è solo a carico degli intellettuali, perché anche chi li appoggerà finirà per essere additato come tale. La resistenza è una questione collettiva e personale allo stesso tempo, motivo per cui è doppiamente difficile perché contrappone gli ideali alla vita quotidiana. Tuttavia è questo il primo passo per affermare la libertà e per disputare poi, forse,  l’egemonia culturale. 

Marachera, re-inventore dell’Africa

Marachera, re-inventore dell’Africa

Anche se il nome di Dambudzo Marachera non dirà nulla alla maggior parte dei lettori in inglese, oggi vorrei parlare di lui e del suo libro “La casa della fame“. Scritta nel 1979, quest’opera apre le porte a un’Africa diversa e vitale. Ritengo che con questa opera egli dia una svolta impetuosa alla letteratura: Marachera, re-inventore dell’Africa.

La casa della fame

Non intendo analizzare l’opera, che d’altra parte è breve. Per questo ci sono voci migliori della mia: per esempio quella dell’amico Pietro Deandrea. È un’opera che a mio avviso supera le categorie dell’autobiografia e dell’autofiction per costruire le fondamenta della sua Africa.

Come dice giustamente Deandrea, per fare questo, di fronte a uno scenario di violenza, crudeltà, umiliazione, povertà, menzogna… di fronte a tutto questo, Marachera ha solo la letteratura, che serve a poco ed è l’unica cosa vera in questo momento.

Il punto centrale che vorrei evidenziare in quest’opera è l’uso che Marechera fa della letteratura per reimmaginare l’Africa.

Rifondare, reimmaginare

Marachera è consapevole che l’Africa, la costruzione dell’Africa africana, non può prescindere da come gli africani vedono il continente, da come lo vedono i non africani e da come gli africani vedono i non africani (e i non africani sono soprattutto gli occidentali).

Il tentativo di Marachera è quello di rifondere un immaginario collettivo. Rifonde l’immagine di sé con le immagini che gli africani hanno di se stessi; il discorso di Marachera, come quello di molti altri prima e dopo di lui, è panafricano. Comprendere le differenze tra i Paesi, i limiti della bontà e della corruzione, così come le loro origini e i loro sviluppi, unisce tutta l’Africa al di là delle divisioni, anche se solo queste insistono per essere rese visibili. Per svolgere questo compito, sfodera due armi: il linguaggio e il cambio di prospettiva.

Inglese, lingua africana

Nel primo caso, Marachera è più interessato a dire che a dire in una lingua africana. In definitiva, gli interessa proporre un nuovo inglese che sfidi la grammatica e la sintassi se necessario, che sia uno strumento di lotta consapevole: “Da qui nasce l’uso sperimentale che ho fatto della lingua inglese, come il sottobosco martirizzato per essere utile ai miei fini. Per uno scrittore nero, è la stessa lingua a essere razzista: è necessaria una lotta totale […] per farle fare ciò che si vuole”. In altre parole, si tratta di capovolgere la lingua dominante per farne, con grande sforzo, una lingua di comunicazione. Questa è certamente una posizione molto diversa da quella sostenuta da Ngũgĩ wa Thiong’o, ma è anche solo una parte di un progetto più ampio.

Mi viene in mente che anche Binyavanga Wainaina, recentemente scomparso in giovane età, (Un giorno scriverò di questo posto, pubblicato in Italia da 66th and 2nd) condivide parte di questa idea quando decide di scrivere in inglese. Data la difficoltà di essere letto da tutti gli africani se scrive in un’unica lingua africana, l’inglese credo sia per Binyavanga Wainaina un fattore trans-spaziale e trans-identitario.

Cambio di prospettiva

Nel secondo caso, lo spettro è più ampio, anche se la sua genesi non è meno ambigua. L’obiettivo di Marachera è quello di rifondere l’immagine di sé degli africani, rovesciando la prospettiva dei classici occidentali. In questo modo, il colonizzatore è colonizzato, almeno in parte, perché è stato risituato e non riesce a cogliere la realtà; non diventa una spiegazione del mondo, ma solo una parte di esso, un errore o una possibilità perduta o non realizzata.

Conclusioni minime

È la più grande impresa di Marachera leggere Wordsworth o Kipling non come colonizzatori ma come occhi inesperti di un interprete africano di una realtà modificata, occhi per nuovi territori. Letture del paradiso della letteratura inglese che ora sono di un paradiso africano come non è stato letto prima, attraverso una lente nuova, brutale, scomposta e attiva. Tutto questo senza mai rinunciare a creare qualcosa di nuovo.

La lingua e la letteratura rimettono a fuoco la realtà, e dove c’era disperazione e nero ora c’è coscienza e una nuova luminosità, non il bianco. Reinventare l’Africa tanto quanto reinventare i suoi abitanti, questo è l’ambizioso tentativo di Marachera, che reinventa l’Africa in poco più di 100 pagine.

La lingua, l’identità, la letteratura, il valore della letteratura, il valore della parola, la commozione del mondo, il valore dell’io; questi sono i temi chiave, a mio avviso, de La casa della fame, tutti temi che rendono quest’opera degna di essere letta, anche per la sua forma e la sua forza.

I limiti dell’immaginario occidentale

I limiti dell’immaginario occidentale

Il tema che mi interessa oggi è quello dei limiti dell’immaginario occidentale. Vorrei approfittare di un’intervista a Chimamanda Ngozi Adichie in occasione del festival La Nuit des Idees (#LaNuitDesIdees) rilasciata alla giornalista Caroline Broué, di Loopsider News (qui) con l’idea di parlare dell’immaginario; ringrazio Yvonne Mburu(@ymscientist) per avermi segnalato questa intervista.

L’intervista

Ebbene, l’intervista in questione ha avuto un seguito molto vivace sui network (come si può vedere dal thread della stessa Yvonne Mburu). Il dibattito si è concentrato sulla seguente domanda:

Intervistatore: I suoi libri sono letti in Nigeria?

Chimamanda: Sì

Intervistatore: Ci sono biblioteche in Nigeria?

Chimamanda: Penso che il fatto che tu abbia fatto questa domanda non sia un buon segno per la Francia.

#LaNuitDesIdees

Fonte https://www.chimamanda.com

L’intervistatore intendeva porre la domanda in modo polemico. Voleva offrire un punto debole per contrastare l’immagine della Nigeria in Francia (e in Europa) come luogo di violenza e di estremismo religioso. Questa intenzione fallisce miseramente con la risposta dell’autrice nigeriana. Non sono molto interessato a seguire la discussione (che può essere seguita sull’account twitter di Yvonne Mburu (@ymscientist). In altre parole, non mi interessa insistere sull’ignoranza degli altri Paesi, sul colonialismo culturale ancora vivo, sull’idea di un mondo sottosviluppato dove avvengono miracoli. 

Mi interessa l’altra faccia di questa idea. Da un lato, la colonizzazione dell’immaginario collettivo ha privato le popolazioni delle ex-colonie dello sviluppo di un proprio quadro immaginario (e mi rendo conto che sto riducendo all’essenziale un concetto dalle profonde implicazioni). Dall’altro lato, e questo è il punto che mi interessa qui, indica i limiti dell’immaginario europeo e occidentale.

Il dibattito

Tralascio l’intenzione dell’intervistatrice, che probabilmente avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato con altre domande. Ciò che tutto questo mi suggerisce è un deficit dell’immaginario occidentale, incapace di immaginare o ipnotizzare una realtà diversa dalla propria. La tendenza a ricreare il proprio territorio (in qualsiasi senso) in altre terre (la ricreazione di Cartagena in Colombia, di Kent in Utar Pradesh o di Anversa in Congo) trova il suo limite corrispondente nell’impossibilità di immaginare strutture e risposte diverse a bisogni uguali o simili. 

Quindi è chiaro che ci sono librerie in Nigeria e a Lagos. Ma nulla impedisce ai nigeriani di escogitare altre strutture. Altri modi più adatti ai loro scopi e alle loro esigenze per garantire la vendita o la lettura di libri; non sono la stessa cosa. La domanda stessa segna la limitazione della curiosità. È una domanda che non indaga sulla realtà. Tenta solo un’approssimazione alle strutture europee che ritiene si siano diffuse nel mondo come le uniche possibili.

In modo parallelo, la risposta di Chimamanda (e di molte altre nel thread) conferma implicitamente, e forse con suo rammarico se considero tutto ciò che ho letto scritto da lei, che la colonizzazione dell’immaginario è inesorabile.

Conclusioni minime

Questo limite concettuale, questa incapacità, che sembra culturalmente genetica, di aprire possibilità a ciò che non è proprio, pare un limite formidabile. È un’impossibilità di immaginare scenari che non corrispondano alla logica europea, non necessariamente la migliore, come è evidente analizzando il nostro modo di vivere e il mondo in cui viviamo. Si manifesta in qualsiasi aspetto si esamini: una cultura straniera, un’idea diversa, un genere che non è il proprio, un orientamento diverso da quello adottato. Sono limiti alla narrazione, limiti al consumo e limiti alla comprensione, limiti alle forme di lettura, ecc….

Muoversi nei limiti dell’immaginario occidentale significa riconoscere che esso impone un limite all’immaginario del resto del mondo. Inoltre, cosa ancor più grave, impone una visione molto ristretta del mondo. Tanto che anche i tentativi di dinamizzarla polemicamente finiscono talvolta per essere controproducenti.

Utopia e distopia in letteratura

Utopia e distopia in letteratura

La presenza di utopia e distopia in letteratura, soprattutto la seconda in tempi più recenti, sembra essere legata allo stato di crisi della società. In questa affermazione sono implicite alcune domande non retoriche che andrebbero discusse: è necessaria una crisi per generare un’utopia/distopia? Il costo del fallimento dell’utopia è attribuibile ad essa, oppure il costo della crisi è attribuibile al fallimento della “soluzione”?

Sviluppi narrativi

Lo sviluppo di una narrazione utopica o distopica si riduce in ultima analisi a una questione di direzione. Vale a dire, come concepiamo il percorso delle idee e delle società attuali. È una questione di tensione e di direzione della tensione, di vettore. O, se preferiamo, è una questione di prospettiva. Questo riduce il dilemma a una questione di attenzione, di volontà, di intenzione, sia sul presente, sul futuro o sul passato. Tutto dipende dall’angolazione, dalla rotazione del punto focale nel tempo piuttosto che nello spazio.

È significativo che, a fronte della progressiva svalutazione del termine utopia, il termine distopia si sia radicato non come antonimo ma come alternativa. Una lettura alternativa della “realtà del mondo”. Una lettura rafforzata da fattori oggettivi come la crisi economica, la disarticolazione sociale, la devastazione ecologica. Temo che sia una lettura autoreferenziale, perché questa visione definisce una società caratterizzata dal negativo. Povertà di massa, sfiducia pubblica, stato di polizia, miseria, sofferenza o oppressione. L’esplorazione delle radici da diverse angolazioni, ma spesso priva di alternative, si colloca nella zona di inquietudine e disagio del lettore, nella disperazione. Una lettura che rafforza le sensazioni di instabilità e precarietà che il presente già offre: il futuro, in generale, non è migliore.

Utopia e distopia

L’utopia, che nella sua visione più classica è un luogo perfetto (un buon luogo, senza esplorare la possibilità di una diversa etimologia che indichi il non luogo), che si mostra immobile. Un luogo antistorico e anti-dialettico come la distopia, immobile. Ci troviamo, paradossalmente, davanti a due visioni potenzialmente mostruose o capaci di generare mostri.

L’aspetto peggiore di queste letture di entrambe le alternative, estremi di un ipotetico pendolo, è la loro parzialità. Perché non si tratta di romanzare o di offrire una finzione che rappresenti la totalità, obiettivo impossibile, ma forse di offrire punti di vista alternativi nella stessa narrazione o punti di fuga, punti di vista, parziali quanto si vuole, che come un caleidoscopio danno l’immagine complessa della realtà. Non si tratta tanto di cogliere la realtà quanto di interpretarla. Ed è in questo caso che l’utopia assume una forza che la distopia non possiede.

L’utopia è forte quando delinea un sogno in divenire, un obiettivo perfettibile, desiderabile ma non vivibile. In altre parole, l’utopia diventa tensione, tensione ideale, tensione immaginativa e tensione narrativa. L’utopia per essere reale deve essere dialettica. Il fallimento delle utopie del XX secolo non è la fine delle utopie narrativamente parlando, costruite immaginativamente (e in questo senso un progetto pienamente politico): nelle parole di Magdalena López “…dimensione creativa capace di trasfigurare la perdita in mondi alternativi attraverso la letteratura e la configurazione di spazi eterotopici. In questo modo, la disillusione rivoluzionaria non implica necessariamente la fine del desiderio utopico, ma un cambiamento nel modo di concepirlo”.

Conclusioni minime

Sono propenso a pensare, quindi, che utopia e distopia raggiungano il loro pieno significato quando si presentano in relazione dialettica, continui rovesciamenti in un infinito divenire. Al contrario, mancano di senso come soggetto pieno se non sono tensione, transizione, possibilità.

Non concepisco una storia o narrazione, come uno spazio distopico, ma come una conversazione perenne tra entrambi gli aspetti. Si delinea infine un orizzonte in cui si immagina qualcosa di migliore, in cui c’è spazio per il riscatto transitorio e sempre provvisorio della vita individuale e collettiva.

In breve, mentre la distopia ci racchiude, l’utopia ci libera nell’uso dell’immaginazione per trovare soluzioni sempre diverse. Esse sono sempre fugaci rispetto alle condizioni che la realtà ci presenta come reali o addirittura inevitabili, n qualunque tempo la collochiamo. Per questo considero l’utopia indispensabile, anche se pallida o poco evidente.  È l’unica che ci offre la possibilità di immaginare un futuro che possiamo costruire e che desidero vedere in futuro.

Censura e autocensura

Censura e autocensura

Censura e autocensura sono termini che rivelano una forte tensione sociale in tutto il mondo. Una questione preoccupante nella misura in cui riflette non la lotta sociale, ma il modo radicale in cui questa lotta è destinata a essere eliminata. La censura e l’autocensura sono gli ultimi modi in cui il confronto viene messo a tacere. 

Per cominciare, non possiamo dimenticare che esiste anche una censura atavica, linguistica, che chiamiamo tabù. Questa è incentrata sulla lista di parole proibite che ogni società genera e che, ovviamente, cambia nel tempo (La censura de la palabra. Estudio de pragmática y análisis del discurso, José Portolés, 2016 Publicaciones Universidad de Valencia. Un’idea di ricerca è delineata all’indirizzo:https://revistascientificas.us.es/index.php/themata/article/view/599).

Censura

Fin qui non c’è da stupirsi. Entrambi i fenomeni, la censura e l’autocensura, si basano sull’eliminazione dell’altro mettendo a tacere la sua voce. Un modo di agire correlato al potere, a colui o a quei gruppi che detengono ed esercitano il potere. Questo non è esclusivo. Anche i gruppi emergenti che pretendono di esercitare lo stesso potere censurano esercitando pressioni. 

Sembra incredibile che questa tensione alla coercizione sia così frequente, come se fosse una “passione infelice” condivisa da ogni tipo di ideologia. Forse la sua ratio andrebbe evidenziata nella costanza che mostriamo nel costruire istituzioni, sociali e mentali, che tendono, a causa di questa “passione”, a costruire anche divieti. Si vietano parole e immagini, arte e scrittura, riducendo tutto al silenzio.

Sostiene Coetzee che il gesto punitivo della censura ha origine nell’offesa: Pornografia e censura). La forza degli offesi sta, dice, nell’assenza di dubbi sulla legittimità della loro reazione. L’offeso è incapace di dubitare di se stesso (e qui sta la sua debolezza, secondo l’autore sudafricano). Uscire da questo circolo vizioso significa opporre alle certezze del censore le virtù del dubbio e della tolleranza.

Censura e post-verità

È facile osservare come la censura nell’epoca attuale, quella che oggi si chiama “tempo di Internet”, si sia popolarizzata. Siamo passati dalla censura organica alla censura universale, atomizzata ma non per questo meno letale. Non passa giorno senza linciaggio, senza censura collettiva e popolarizzata. Gli algoritmi cibernetici rafforzano le certezze che sono i pregiudizi e i preconcetti di ciascuno di noi in un circolo vizioso attraverso il quale otteniamo le informazioni che coincidono con il “nostro” punto di vista, murandoci in una prigione concettuale, una moderna caverna platonica omologante. 

L’algoritmo che risolve le nostre preferenze non è né casuale né innocente. L’informatica è predeterministica, la censura instillata nell’algoritmo è umana e intenzionale. E non dobbiamo dimenticare che essere avallati ha un aspetto cognitivo: la nostra cecità ci dà un senso di benessere, la dopamina del “ho ragione”. La censura ha la diabolica virtù di metterci in un centro blindato di soddisfazione, immunità e sicurezza. Qualcosa che la censura organica e istituzionale non offriva più.

Non smette di sembrarmi curioso che la censura e la post-verità abbiano un punto di contatto in quella soddisfazione di ciò che ci è utile, nel corroborare la visione dei suoi riti e il silenzio di altre voci. Come ha detto Onofre Castells (@OnofreCastells) in un recente tweet “Le verità che abbondano di più tra noi sono estranee alle norme epistemiche e molto vicine, per così dire, alla concezione nietzschiana della verità, cioè la verità è qualcosa che si desidera o, forse, semplicemente a quella verità pragmatica che indica ciò che è bene per uno”.

Autocensura 

L’Autore (quindi in maiuscolo, a sottolineare il suo essere astratto e collettivo) subisce questa pressione in molti modi diversi. Ad esempio la pressione è esercitata in senso civile, sulla sua appartenenza al gruppo. La questione diventa difficile perché l’autore può ammettere come lecita, perché condivide ideali o obiettivi più ampi, la limitazione della sua espressione e quindi l’autocensura.

Ci possono essere pressioni sull’Autore per enfatizzare la sua responsabilità genitoriale, la sua responsabilità familiare. La perdita del lavoro o la perdita del lavoro da parte dei membri della famiglia, l’impossibilità di trovarlo o il notevole calo della qualità della vita. Perdere un contratto, perdere lettori, essere boicottato. Ci sono molti modi in cui l’Autore può essere vittima della censura e quindi dell’autocensura. Si può dire che per la sua complessità, per le complicità che comporta, per i compromessi che comporta accettare e per le negoziazioni a cui l’Autore è costretto a ogni frase, riga o capitolo, l’autocensura è la forma più insidiosa in cui la censura si manifesta.

Un autore di gialli diceva che quando compare l’autocensura, c’è un omino verde che ti sussurra continuamente: “Sei sicuro di volerlo scrivere? Avrai dei problemi”. Kundera o Solzenicyn mostrano nelle loro memorie che questo è un sentimento comune quando la censura è già parte di tutti.

Gli algoritmi sono un’autocensura del lettore (passiva e con frequenza inconsapevole) non meno che dell’Autore, consapevole o inconsapevole. Forme sottili come la “correttezza politica”, cioè il tentativo folle e totale di non offendere mai nessuno, e ho la sensazione che questa definizione di offesa provenga sempre da estranei o da terzi ipersensibili, costituiscono un’autocensura. Qui lo Stato, con i suoi meccanismi di censura, può avere un ruolo da svolgere, ma non è più necessario o indispensabile.

Traslazione

Lo Stato ha anche la capacità di trasferire i tentativi di censura a terzi attraverso meccanismi civili, come le forze dell’ordine (e occasionalmente la giustizia). La famosa legge Fraga (in Spagna, ma ci sono esempi di ciò ovunque) sulla censura pose l’onere della censura sull’editore, non più su un organismo o sull’Autore, con il risultato di trasformare l’editore stesso in un censore. Si possono così elencare i casi emblematici, anche se purtroppo non gli unici, di Taurus o Ariel, anche di Seix Barral o Lumen. La questione è sfociata nell’autocensura da parte degli stessi autori, che hanno scelto cosa censurare prima che lo facesse l’editore, sotto la minaccia di una causa e del ritiro del libro (Discurso de autora: género y censura en la narrativa española de posguerra, Lucía Montejo Gurruchaga, 2013, UNED).

Vie d’uscita dal dilemma

Vista in quest’ottica, non esiste una via d’uscita al dilemma. Tuttavia, c’è, perché non tutti gli Autori cedono a questa indebita richiesta della politica, intesa come impero e non come spazio di gestione e ideazione del comune, in relazione alla cultura.

Come sottrarsi? Opzioni

Eludere è la parola giusta, perché il clima generato dalla censura e dall’autocensura è quello di una prigione senza pareti; sono tutte costrizioni formali, ideologiche, pratiche.

La prima opzione è la fuga totale, l’allontanamento completo. Utopica e forse irresponsabile se è vero che l’opposizione alla censura è la manifestazione della libertà degli altri.

La seconda soluzione ovvia è quella di creare una zona autonoma e distinta, separata, ma non segregata, dal corpo maggioritario della società. Una zona in cui sia possibile comunicare senza censura utilizzando piccoli gruppi e circuiti. Logicamente, questo contrapone libertà a marginalità.

La terza opzione è quella di limitare il campo d’azione, di affrontare temi e forme che riducono l’interesse della censura a uno zero tendenziale. In altre parole, optare per una delle due possibilità offerte da questa linea d’azione: la marginalità o l’irrilevanza, che dietro questa scelta, in fondo, sono la stessa cosa.

L’ultima e quarta via è quella che tutti conosciamo come “resistenza eroica e accorta alla censura”. Chi non ha mai sentito parlare di come A o B abbiano schivato la censura grazie a metafore o polisemie o altre risorse come il trasferimento del problema in un’altra realtà, magari ipotetica o immaginata in una sfrenata finzione. Sì, è vero che questa è la parte in cui autocensura e censura sembrano trovare il loro rovescio, la parte selvaggia che suppone e che resiste ad essere tale, lavorando contro se stessa. Un terreno in cui l’impegno dell’Autore a schivare la censura si sovrappone all’impegno dell’Autore a non cedere completamente ad essa e ad autocensurarsi, senza rischiare la propria vita.

Sforzi combinati

Ora, questa strategia di fuga, di elusione della tenaglia della censura, richiede due sforzi principali (molti di più in realtà): uno indispensabile da parte dell’Autore, l’altro necessario da parte del Lettore. Se l’autocensura del logaritmo, come abbiamo detto, è una gara tra Lettore e Autore, la risoluzione della censura richiede un Lettore in grado di decifrare il messaggio nascosto e l’Autore deve mettere le chiavi a portata di mano. Questo non è un compito facile ed è più esposto di quanto sembri a prima vista (anche se, ovviamente, il Lettore può forgiare le proprie chiavi interpretative, ricomponendo il testo e lo fa). 

L’ostacolo principale sta nel fatto che una tale lettura richiede un lettore scomodo, un lettore critico, un Cittadino autonomo. Non può essere lasciata solo agli Editori e agli Autori, che, come ognuno di noi, sono persone con le loro paure, possibilità e responsabilità: è meglio non farne degli eroi vocazionali. La rottura della censura non è solo un fatto letterario, è un fatto culturale nel senso pieno del termine.

Conclusioni minime

Chiudo questa riflessione personale circa censura e autocensura dicendo che il rapporto dinamico dell’uomo con la censura non lascia presagire un rapido superamento, ma nemmeno può essere eterno, soprattutto se ci sforziamo di creare, per quanto possibile, relazioni civili e civiche molto dubbie e molto tolleranti, tranne che con noi stessi.